La ragione per cui il cinema è una delle più suggestive tra le arti visive e dello spettacolo è sicuramente il movimento che imprime alle immagini. Grazie ad attrezzature sempre più sofisticate, nel corso degli anni i movimenti compiuti dalla macchina da presa si sono evoluti consentendo una maggiore potenza nella comunicazione visiva, più libertà di espressione e risultati suggestivi. Dalla camera a mano alle riprese realizzate con l’aiuto di gru e droni, andiamo quindi a vedere le tecniche di ripresa più comuni e anche qualcuna tra le più particolari, aiutandoci con esempi dalla cinematografia internazionale.
La camera a mano
La camera a mano è forse la più basilare delle tecniche e consiste nell’inquadratura effettuata dall’operatore equipaggiato esclusivamente con la telecamera, senza alcuna altra attrezzatura. L’operatore realizza la ripresa trasportando la camera a mano o a spalla e questo genera immagini in movimento, dinamiche e talvolta instabili.
Nata per esigenze giornalistiche, la tecnica viene ripresa nel documentario e in ambito cinematografico per riprese dal taglio realistico. Un chiaro esempio fra tutti: The Blair Witch Project, film del 1999 girato interamente con camera a mano per costruire nello spettatore l’idea di trovarsi di fronte a un reportage autentico.
Il tempo cinematografico incontra il tempo della realtà: il piano sequenza
Da non confondere con il long take, il piano sequenza è una tecnica cinematografica che consiste in una lunga inquadratura senza stacchi, realizzata attraverso una sola ripresa, dove il tempo cinematografico rispetta il tempo della realtà. Quest’ultimo aspetto rende la ripresa molto realistica, efficace quando si vuole introdurre lo spettatore dentro la quotidianità dei personaggi o rappresentare l’azione dando il senso dell’ambiente in cui i personaggi si muovono.
Un esempio recente è quello di Birdman, lungometraggio del 2014 in cui Iñárritu propone numerosi piani sequenza che trasmettono allo spettatore la rappresentazione di una realtà soffocante; ancor più recente (e più discusso) è l’uso di questa tecnica in 1917, film di Sam Mendes che racconta il primo conflitto mondiale e che è valso a Roger Deakins un Oscar alla migliore fotografia. Mendes e Deakins realizzano numerosi piani sequenza, per poi montarli in modo che l’intero film sembri un’unica ripresa.
Ma parlando di piano sequenza non si può non citare L’Infernale Quinlan di Orson Welles, che nel 1958 gioca con i tempi cinematografici e apre con un piano sequenza di oltre tre minuti e mezzo, accompagnato da uno snervante ticchettio, facendo tenere il fiato sospeso allo spettatore per tutto il tempo fino all’esplosione della bomba nell’auto. È proprio per raccontare il cinema di Welles e questo tipo di ripresa della durata di un’intera sequenza narrativa che il critico francese André Bazin creò la definizione “plan-séquence”. Non solo: Welles viene omaggiato da Robert Altman, che nel 1992 inserisce nel suo The Player un piano sequenza di oltre 9 minuti.
L’inquadratura lunga: il long take
In parole povere, il long take non è altro che un’inquadratura lunga e proprio per questo spesso è associata o confusa con il piano-sequenza.
Come il piano-sequenza, il long take shot sfrutta infatti la profondità di campo ed è una lunga ripresa dove non vi sono interruzioni di montaggio.
La differenza tra piano-sequenza e long take sta nel fatto che mentre il primo riprende senza stacchi un’intera sequenza narrativa, il long take è semplicemente una inquadratura di lunga durata. In altre parole, il piano-sequenza è in grado di assolvere a una funzione narrativa, illustrando l’intera scena senza tagli, mentre il long take non esaurisce un blocco narrativo, che quindi si compone di altre riprese oltre a questa.
Da Brian De Palma allo stesso Welles, gli esempi per questa tecnica sono molto numerosi dentro e fuori Hollywood; anche molti celebri registi italiani come Bertolucci e Antonioni hanno inserito dei long take nei loro film, ma uno degli esempi più interessanti arriva dalla Corea, dove Park Chan-wook ne realizza uno di grande impatto per la scena del pestaggio nel film del 2003 Oldboy.
Punti di vista speculari: il campo-controcampo
Tipicamente utilizzato nella ripresa di un dialogo tra due interlocutori (ma non solo), il campo-controcampo è la successione di due inquadrature dai due diversi punti di vista dei soggetti. Nello specifico, il controcampo inquadra il luogo da cui è girata l’inquadratura immediatamente precedente.
È una tecnica essenziale alla narrazione, per questo la troviamo praticamente in qualsiasi film, che sia per la proiezione sul grande schermo, di animazione o per la tv, che sia mai stato realizzato.
Grazie al campo-controcampo, lo spettatore non è lasciato ad assistere alla scena dall’esterno, ma viene coinvolto maggiormente negli avvenimenti attraverso il cambio (o la serie di cambi) di punto di vista.
Una veduta d’insieme: la panoramica
Il termine “panoramica” è forse uno dei più intuitivi anche per chi non mastica di cinema; in questo caso, i movimenti della macchina da presa sono assimilabili a quelli della testa dello spettatore, come se, fermi davanti a un paesaggio o a un panorama (appunto), ci voltassimo a destra e a sinistra oppure verso l’alto e verso il basso.
La tecnica cinematografica della panoramica consiste nell’inquadratura di spazi vasti sfruttando i movimenti che la camera fa ruotando sul suo asse, in verticale o in orizzontale, in obliquo, oppure a 360 gradi.
A seconda della velocità e dell’intento con cui è realizzata, la panoramica assume sfumature e significati diversi: abbiamo visto la panoramica circolare, in cui la camera fa un giro completo, ma esiste anche quella denominata “swish pan”, molto rapida, o quella “filata”, che va a seguire un soggetto.
Per un esempio celebre di panoramica torniamo agli anni ’50, per la precisione al 1954, anno in cui Luchino Visconti firma la pellicola Senso e, nella scena del teatro, inserisce una panoramica orizzontale seguita da una obliqua nell’altro senso, a mostrare il pubblico di diverse estrazioni sociali che affolla la Fenice.
Giocare con le distanze: la zoomata
È detta anche “carrellata ottica”, perché non si tratta di un vero e proprio movimento di macchina, ma di un’illusione: un po’ come il diaframma, regolando la luce, gioca con la messa a fuoco e aumenta o diminuisce la profondità di campo, anche in questo caso l’effetto non è dato dal movimento di macchina ma dall’obbiettivo della telecamera.
Per realizzare una zoomata, l’operatore si serve infatti di un obiettivo a focale variabile, che gli permette di stringere da un’inquadratura ampia (“grandangolare”) a un angolo di ripresa più stretto.
Con una zoomata si va quindi ad alterare la distanza tra la cinepresa e il soggetto, allontanandolo o avvicinandolo: la visuale si allarga nel caso di uno “zoom out” o, al contrario, porta il soggetto in primo piano nel caso di una zoomata in avanti (“zoom in”).
Per un utilizzo sapiente dello zoom si veda alla voce Sergio Leone, che nel 1968 lo usa più volte nel duello finale del celeberrimo western all’italiana C’era una volta il West.
Scorrimento e circolarità: la carrellata
Come nel caso della panoramica, anche il termine “carrellata” è entrato ormai nel linguaggio di uso comune, in quanto questo tipo di tecnica è facilmente riconoscibile: si parla infatti di una ripresa ottenuta dallo scorrimento della macchina da presa su un carrello generalmente montato su binari, che dà come risultato finale uno spostamento in orizzontale dell’inquadratura.
Per realizzarla, l’operatore muove il carrello in una direzione, più o meno velocemente a seconda dell’effetto desiderato.
Troviamo svariati usi della carrellata nel pluripremiato Taxi Driver di Scorsese, così come nel Gladiatore di Ridley Scott, così come è doveroso citare il cinema d’autore di Paolo Sorrentino, che ricorre spesso e volentieri a carrellate lunghe.
La carrellata può essere usata in composizione con altre tecniche, ad esempio la zoomata, come nel caso del dolly zoom.
Vertiginoso e inquietante: il dolly zoom
Questa tecnica consiste in uno zoom in avanti seguito da una carrellata indietro o, viceversa, zoom indietro con carrellata avanti a seguire.
Il fatto che sia conosciuta anche con il nome di “effetto Vertigo” lo dobbiamo al maestro del brivido Alfred Hickcock, che nel 1958 utilizzò il dolly zoom nel suo La donna che visse due volte. Il titolo originale della pellicola era Vertigo, appunto: qui Hickcock combina i due movimenti per trasmettere allo spettatore la paura delle altezze di cui soffre Scottie, il protagonista.
Da allora l’effetto Vertigo è stato utilizzato in molte altre produzioni celebri, tra tutte Lo Squalo di Spielberg (dalla spiaggia, brulicante di bagnanti terrorizzati, il capo della polizia Brody assiste al massacro del bambino); Toro Scatenato, di Scorsese (qui la vertigine si sposta sul ring con una zoomata indietro seguita da una carrellata in avanti) e il video-capolavoro del brano di Michael Jackson Thriller, per la regia di John Landis.
Prospettive singolari: trunk shot e corpse view
Il trunk shot non è altro che un tipo particolare di ripresa dal basso, ma è curioso che esista un nome specifico per le riprese effettuate dal bagagliaio di un’auto.
Può essere realizzato piazzando effettivamente operatore e telecamera in un bagagliaio, oppure, vista la complessità di realizzazione, si può ricorrere a una simulazione, riproducendo “l’effetto bagagliaio” attraverso elementi come la portiera e parti delle fiancate piazzati intorno alla macchina da presa a dare l’idea che la ripresa venga dall’interno di un’auto.
Come il corpse view, anche questa tecnica richiama inevitabilmente alla memoria le opere di Tarantino e infatti è molto utilizzata dal regista statunitense, che la propone in numerose opere tra cui Le Iene, Kill Bill, e Pulp Fiction (che gli valse l’Oscar alla migliore sceneggiatura nel ’95) anche se l’esempio più chiaro e forse tra i più remoti che abbiamo risale al thriller del 1948 Egli camminava nella notte, diretto da Alfred L. Werker.
Sempre a proposito di particolari inquadrature dal basso, il corpse view è invece una ripresa da terra, dal punto di vista di chi giace al suolo, come un cadavere o un ferito. Anche in questo caso Tarantino la fa da padrone, con inquadrature del genere in Kill Bill, Grindhouse e Bastardi Senza Gloria.
Movimenti di camera armoniosi con lo Steadicam shot
Come suggerisce il nome, lo Steadicam shot è una ripresa realizzata con la Steadicam, strumento nato a metà degli anni settanta da un’idea di Garrett Brown (portata al grande pubblico dalla Cinema Products Corporation nel 1975) che ha costituito una rivoluzione nel modo di fare riprese video.
La Steadicam combina la stabilità del cavalletto alla flessibilità di una camera a spalla e alla capacità di movimento del dolly, assorbendo oscillazioni e urti e “isolando” il movimento dell’operatore. Questo consente di ottenere riprese omogenee e movimenti di camera armoniosi.
L’operatore Steadicam indossa un’imbracatura alla quale è fissata la telecamera, che in questo modo diventa leggerissima e facilmente controllabile anche in spazi ristretti o scomodi.
Nel suggestivo capolavoro The Shining, tratto dal romanzo di Stephen King, Stanley Kubrick ricorse più volte a questa tecnica per le riprese di momenti indimenticabili, come la fuga nel labirinto innevato e le corse con il triciclo del piccolo Danny per i corridoi dell’Overlook Hotel, che Kubrick immortala con un long tracking shot, una ripresa lunga a seguire il piccolo Danny.